lunedì 19 settembre 2005

Ricerca & Innovazione, una via per far emergere le idee

La piccola media impresa italiana, davanti ai micidiali colpi dei paesi emergenti, sta rischiando il collasso, per mancanza di innovazione, di processo e di prodotto.

Cosa ferma i nostri piccoli imprenditori.
E', per caso, la mancanza di capacità di rischio la causa all'avvio di un qualunque tipo di innovazione?
Certamente no! Non vi è alcun nesso diretto tra capacità ad innovare e la disponibilità al rischio. Lo dimostrano le centinaia di piccole imprese che costituiscono il nostro sistema imprenditoriale. Lo dimostra la crescita e la capacità di stare sul mercato di alcune nostre medie imprese.
Il fatto è che la piccola impresa non ha la dimensione per dedicare risorse all'innovazione né si avventura in progetti che per loro natura richiedono una adeguata attenzione manageriale e tempi troppo lunghi rispetto al bisogno di rispettare il time to market specifico del proprio settore.
Non credo vi sia alcuna relazione tra l'essere imprenditore, essere capaci di innovazione e avere conoscenza delle tecnologie per lo sviluppo dell'idea imprenditoriale.
La vera innovazione richiede tutte queste caratteristiche messe insieme e quindi un impegno economico eccedente le capacità e le dimensioni della nostra piccola impresa. Soldi e persone.

Né più in generale, e questo vale per le aziende che hanno la dimensione economica per permetterselo, credo che costituire specifiche strutture organizzative stabili per innovare prodotti o processi possa dare frutti duraturi nel tempo.
L'innovazione e la ricerca sono appannaggio di spiriti liberi che possono dedicare all'impresa il proprio tempo e la passione per il proprio progetto. Gente che generalmente non ha abbastanza soldi da rischiare in una avventura. Uomini che per ottenere un qualche finanziamento sono costretti a sottoporre la propria idea innovativa al vaglio di burocrati spesso inesperti e che poco hanno a che vedere con il mercato e con il rischio. Soggetti rifugiati presso istituzioni statali, spesso troppo giovani, che sono chiamati ad emettere sentenze sull'efficacia del market plan o pingui impiegati di banca a cui è stato assegnato il compito di ricavare più soldi possibile in aggi vari, che non hanno alcun interesse a correre rischi.
Allora!?
Lo Stato si impegni a finanziare a costo zero, attraverso l'università, le idee innovative, tutte, destinando a queste il massimo possibile delle proprie risorse. Sarà, poi, l'università a fare in modo che l'idea sia sviluppabile, e quindi brevettabile.
Naturalmente lo Stato si organizzerà per rendere più concrete le regole di protezione sui brevetti e per promuovere l'incontro tra i ricercatori e le imprese, nazionali ed estere. Per esempio mettendone all'asta il successivo sviluppo e gli incentivi associati.
Tra gli incentivi possibili vi saranno finanziamenti agevolati a basso costo ottenuti senza istruire alcuna pratica e senza intermediari.
Il gruppo di sviluppo, creato secondo regole predeterminate (vedi articolo Un progetto per favorire la ricerca e l’innovazione del tessuto industriale italiano dello stesso autore), si impegnerà a realizzare, insieme all'università, il relativo prototipo, con l'impegno di promuoverne il successivo sviluppo impegnandosi a restituire allo Stato il finanziamento ottenuto.
Idea, brevetto dell'idea, cessione all'impresa più interessata, sviluppo finanziato.
L'università farà, così, finalmente lavorare i propri ricercatori ed i propri studenti su progetti concretamente utili e non si limiterà ad dispensare voti alla ... buona memoria; le imprese potranno innovare continuando a fare il proprio mestiere di produttori di beni, liberati da costosi e, spesso, inutili e defatiganti incontri con la burocrazia; lo Stato metterà in campo danari che generano attività e che ritornano, attraverso un fondo rotativo capace di avviare una spirale di sviluppo continuo. Il rischio? che vengano dispersi inutilmente più fondi di quanti se ne siano perduti sinora. Naturalmente il legislatore porrà un sol limite: che, in quattro o cinque anni, almeno il 70% dei fondi impiegati per il finanziamento dello sviluppo del prodotto scaturente dalla ricerca, ritorni.

domenica 24 aprile 2005

Una progetto per favorire la ricerca e l’innovazione del tessuto industriale italiano

Il 97,7% delle imprese industriali spende meno del 9% dei costi annui di R&S del paese. Qui di seguito una proposta per offrire alle 530.000 piccole e medie imprese italiane e ai suoi 2.770.000 addetti la possibilità di non morire ma di crescere, attraverso la ricerca e l'innovazione dei prodotti. Portando il rapporto R&S sul PIL a valori europei.

Scenario
Nel 2001 l’incidenza percentuale della spesa per R&S sul Prodotto interno lordo (Pil) è stata pari all’1,11%.

L’Italia è caratterizzata, quindi, da livelli di spesa per R&S in rapporto al Pil strutturalmente inferiori a quelli di numerosi paesi membri dell’Unione europea (Ue) o dell’Ocse. Nel 2001 la spesa per R&S sul Pil era pari all’1,92 per cento come media Ue (2,29 per cento per l’Ocse).
Circa la metà dell’attività di R&S intra-muros in Italia (49,1 per cento) è stata svolta nel settore privato; le amministrazioni pubbliche hanno assorbito la parte restante, con quote che vanno dal 32,6 per cento delle università, al 14,2 per cento nel caso degli enti pubblici di ricerca, fino al 4,2 per cento rilevato per le altre istituzioni pubbliche.

A prezzi correnti le spese in R&S delle imprese non superano, nel 2003, i 7.675 milioni di euro. Le attività di R&S si presentano fortemente concentrate nel segmento delle grandi imprese: nel 2001, infatti, circa l’83 per cento della spesa per R&S intra-muros è stato sostenuto da imprese con almeno 250 addetti; le piccole imprese (ovvero quelle con meno di 50 addetti) hanno contribuito alla spesa per ricerca solo per il 5,6 per cento, mentre le aziende di medie dimensioni (50-249 addetti) hanno sostenuto circa il 12 per cento della spesa complessiva.

Nel 2001 il personale impegnato in attività di R&S è risultato essere pari a 153.905 unità equivalenti a tempo pieno (di cui 66.702 ricercatori), contro le 150.066 rilevate nel 2000 (di cui 66.110 ricercatori). Il 49,3% delle spese in R&S delle imprese sono dedicate ad attività di sviluppo (dati ISTAT).
Le imprese con meno di 250 addetti rappresentano il 99,7 % del totale delle imprese industriali del nostro paese e occupano il 76 % degli occupati.

Proposta
La proverbiale capacità di imprendere del nostro paese, che negli anni passati tante piccole iniziative ha fatto nascere, viene sacrificata dalla incapacità, spesso tecnologica, a svilupparle.
L’obiettivo da porsi è quindi favorire la creazione di centri che con il concorso delle Università possano dare spazio allo studio, la prototipizzazione e sperimentazione di nuovi prodotti e/o nuove tecnologie da immettere poi sul mercato.
In tal modo si favorisce la creazione del nuovo prodotto associando l’innovatore, uomo di fantasia, con il tecnologo: i costi relativi potrebbero essere sostenuti a carico di un apposito fondo di rotazione che viene man mano ricostituito con parte dei proventi rinvenienti dalle vendite.
La proposta prevede che i laboratori universitari siano incentivati, per esempio con l’assegnazione di “fondi di rotazione dedicati” appositamente stanziati dal Ministero della Ricerca Scientifica, a realizzare prototipi di nuovi prodotti o sperimentare nuove tecnologie con e per conto di privati, piccole imprese o singoli, partecipando al costo dello sviluppo del prototipo. Non saranno finanziabili con questa forma i successivi costi di industrializzazione.
Il Laboratorio Universitario interessato alla ricerca sarà responsabile della istruttoria, della preselezione e della gestione delle risorse economiche ottenute.
All’Università vengono assegnati, annualmente, i fondi, dopo una prima assegnazione paritetica, in funzione del successo di mercato ottenuto con la somma delle assegnazioni precedenti (numero delle ricerche avviate, numero delle ricerche vendute).
Per le imprese interessate lo Stato partecipa al finanziamento del progetto dilazionando il prelievo dell’IVA e dei contributi sociali. Ciò avverrà attraverso il riconoscimento delle “Unità Economiche di Progetto di Ricerca”. Tali organismi rappresentano una nuova tipologia di società, una sorta di ONLUS (cioè organizzazioni non lucrative) che producono la non tassazione dei finanziamenti per la ricerca ottenuti da donatori, imprese o semplici cittadini.
Le Unità Economiche di Progetto di Ricerca dovranno essere costituite dagli enti partecipanti alla ricerca (Università, Impresa, Enti Istituzionali) e registrate, gratuitamente, da un funzionario dell’Agenzia delle Entrate, senza l’intervento di un notaio, a cura di chi propone la ricerca da finanziare. Queste organizzazioni non fanno parte del registro delle imprese, hanno durata uguale alla durata del progetto, si avvalgono di personale, attrezzature e servizi conferite dai soci, non pagano imposte, né contributi, sono esenti dal pagamento dell’IVA. Una formula per avvicinare i piccoli imprenditori alla ricerca. Il personale conferito è dipendente strutturato delle organizzazioni conferenti. L’Università parteciperà al progetto utilizzando propri ricercatori interni e studenti del Dipartimento interessato alla ricerca, assunti, per lo scopo, con un contratto a progetto.
Alla chiusura del progetto di ricerca l’organismo a questo scopo creato cede all’impresa proponente il bene prodotto (i risultati della ricerca). Nel caso sia richiesto l’impresa può accedere a forme di pagamento dilazionato e senza interessi dei costi sopportati, dei costi di registrazione, del rimborso allo Stato dell’IVA e di qualunque imposta o contributo sospesa.
La restituzione del finanziamento avverrà con rate proporzionali al fatturato atteso (royalty), con un eventuale periodo di grazia corrispondente alla fase di avviamento sul mercato (il finanziamento verrà restituito a partire dal raggiungimento del break-even point economico del progetto per un tempo massimo di cinque anni, o se minore, alla durata della sua vita economica) sulla base del business plan approvato. La proprietà del bene è trasferita all’imprenditore solo in caso di rimborso totale del finanziamento.
L’Università rimane comproprietaria della ricerca e destinataria di una royalty commisurata all’impegno economico profuso, sui futuri ritorni economici. Le royalty costituiranno per le Università risorse aggiuntive destinate al finanziamento dei propri investimenti. In caso di mancato acquisto o di mancato pagamento, anche parziale, delle royalty la ricerca e i risultati raggiunti rimangono di proprietà dell’Università che ha diritto di registrarla a proprio nome e/o ad usarne i risultati per fini propri.
La proposta è dedicata al comparto della media, piccola e piccolissima impresa. Comparto che non ha certo il tempo, i mezzi né la professionalità per realizzare prototipi di nuovi prodotti o per sperimentare nuove tecnologie, ma che costituisce un importante motore per occasioni di sviluppo occupazionale, e di rinnovo dei prodotti.
Attualmente su un totale di 13.600 milioni di euro (dati 2001) le piccole imprese industriali (circa 536.000 imprese con meno di 50 addetti) e alle medie imprese industriali (circa 11.000 imprese con 50 – 250 addetti) partecipano all’8,50% del totale della spesa in ricerca e sviluppo. Le imprese spendono un totale di circa 6700 milioni di euro. I rimanenti 6.900 milioni di euro sono essenzialmente utilizzati per la copertura dei costi di gestione della ricerca pubblica.
Il comparto delle piccole imprese spende 696 euro/anno per impresa; il comparto delle medie imprese raggiunge i 70.571 euro per impresa/anno (rispettivamente 135 euro/anno e 735 euro/anno per addetto). Le grandi imprese ( imprese con più di 250 addetti) spendono 3,5 milioni di euro/anno per impresa (4.500 euro/anno per addetto), soprattutto per attività di sviluppo e aggiornamento prodotti. Spesa rimasta, mediamente, pressocchè costante (a costi 2001) negli anni 2002 /2003.
A questo tipo di progetto possono partecipare, con propri fondi e/o con proprie professionalità, gli Enti pubblici di ricerca, strutture sempre alla affannosa ricerca di una propria utilizzazione.
L’ipotesi è che si possa trasformare in un fondo di rotazione il finanziamento alla R&S e che si possano destinare alle piccole medie imprese fondi aggiuntivi per la ricerca e l’innovazione per un totale di circa 6.000 milioni di euro per i prossimi 3-4 anni. Questa politica scoraggia l’uso improprio dei fondi per la ricerca e potrebbe essere capace di avviare investimenti aggiuntivi in R&S pari a 10.000 milioni di euro/anno.
Un impegno che potrebbe essere sufficiente per portare a 1,9% il rapporto tra spese di R&S e PIL, annullando l’attuale divario con la media EU. Naturalmente si potrebbero ottenere benefici aggiuntivi per le imprese ed il paese se vi fosse un maggior controllo sulle spese dichiarate di sviluppo, spese che, spesso, si riferiscono ai costi di attezzaggio che nulla hanno a che fare con la R&S.
L’iniziativa potrebbe essere, inoltre, occasione per riportare verso cose concrete l’impegno dell’università. Ridandole efficienza e offrendole l’occasione di riallacciare contatti operativi con l’industria. Ma avrebbe anche il merito di ridare fiato all’asfittica economia del nostro paese.
La maggior parte di questo investimento è costituito da costi per addetti alla ricerca. Con una occupazione aggiuntiva stimata in 100.000-120.000 addetti equivalenti a fine periodo, con un effetto trascinamento che potrebbe quasi far raddoppiare gli attuali addetti equivalenti.
L’occupazione aggiuntiva potrebbe migliorare il tasso di disoccupazione relativo alle categorie più qualificate, quelle più danneggiate dall’attuale stato di crisi del paese, di vari punti percentuali. Con un volano per l’economia non indifferente. E con una straordinaria crescita della attuale potenzialità e per la competitività delle piccole medie imprese del nostro paese.
Aprile 2005 - Francesco Nunziata