Il 97,7% delle imprese industriali spende meno del 9% dei costi annui di R&S del paese. Qui di seguito una proposta per offrire alle 530.000 piccole e medie imprese italiane e ai suoi 2.770.000 addetti la possibilità di non morire ma di crescere, attraverso la ricerca e l'innovazione dei prodotti. Portando il rapporto R&S sul PIL a valori europei.
Scenario
Nel 2001 l’incidenza percentuale della spesa per R&S sul Prodotto interno lordo (Pil) è stata pari all’1,11%.
L’Italia è caratterizzata, quindi, da livelli di spesa per R&S in rapporto al Pil strutturalmente inferiori a quelli di numerosi paesi membri dell’Unione europea (Ue) o dell’Ocse. Nel 2001 la spesa per R&S sul Pil era pari all’1,92 per cento come media Ue (2,29 per cento per l’Ocse).
Circa la metà dell’attività di R&S intra-muros in Italia (49,1 per cento) è stata svolta nel settore privato; le amministrazioni pubbliche hanno assorbito la parte restante, con quote che vanno dal 32,6 per cento delle università, al 14,2 per cento nel caso degli enti pubblici di ricerca, fino al 4,2 per cento rilevato per le altre istituzioni pubbliche.
A prezzi correnti le spese in R&S delle imprese non superano, nel 2003, i 7.675 milioni di euro. Le attività di R&S si presentano fortemente concentrate nel segmento delle grandi imprese: nel 2001, infatti, circa l’83 per cento della spesa per R&S intra-muros è stato sostenuto da imprese con almeno 250 addetti; le piccole imprese (ovvero quelle con meno di 50 addetti) hanno contribuito alla spesa per ricerca solo per il 5,6 per cento, mentre le aziende di medie dimensioni (50-249 addetti) hanno sostenuto circa il 12 per cento della spesa complessiva.
Nel 2001 il personale impegnato in attività di R&S è risultato essere pari a 153.905 unità equivalenti a tempo pieno (di cui 66.702 ricercatori), contro le 150.066 rilevate nel 2000 (di cui 66.110 ricercatori). Il 49,3% delle spese in R&S delle imprese sono dedicate ad attività di sviluppo (dati ISTAT).
Le imprese con meno di 250 addetti rappresentano il 99,7 % del totale delle imprese industriali del nostro paese e occupano il 76 % degli occupati.
Proposta
La proverbiale capacità di imprendere del nostro paese, che negli anni passati tante piccole iniziative ha fatto nascere, viene sacrificata dalla incapacità, spesso tecnologica, a svilupparle.
L’obiettivo da porsi è quindi favorire la creazione di centri che con il concorso delle Università possano dare spazio allo studio, la prototipizzazione e sperimentazione di nuovi prodotti e/o nuove tecnologie da immettere poi sul mercato.
In tal modo si favorisce la creazione del nuovo prodotto associando l’innovatore, uomo di fantasia, con il tecnologo: i costi relativi potrebbero essere sostenuti a carico di un apposito fondo di rotazione che viene man mano ricostituito con parte dei proventi rinvenienti dalle vendite.
La proposta prevede che i laboratori universitari siano incentivati, per esempio con l’assegnazione di “fondi di rotazione dedicati” appositamente stanziati dal Ministero della Ricerca Scientifica, a realizzare prototipi di nuovi prodotti o sperimentare nuove tecnologie con e per conto di privati, piccole imprese o singoli, partecipando al costo dello sviluppo del prototipo. Non saranno finanziabili con questa forma i successivi costi di industrializzazione.
Il Laboratorio Universitario interessato alla ricerca sarà responsabile della istruttoria, della preselezione e della gestione delle risorse economiche ottenute.
All’Università vengono assegnati, annualmente, i fondi, dopo una prima assegnazione paritetica, in funzione del successo di mercato ottenuto con la somma delle assegnazioni precedenti (numero delle ricerche avviate, numero delle ricerche vendute).
Per le imprese interessate lo Stato partecipa al finanziamento del progetto dilazionando il prelievo dell’IVA e dei contributi sociali. Ciò avverrà attraverso il riconoscimento delle “Unità Economiche di Progetto di Ricerca”. Tali organismi rappresentano una nuova tipologia di società, una sorta di ONLUS (cioè organizzazioni non lucrative) che producono la non tassazione dei finanziamenti per la ricerca ottenuti da donatori, imprese o semplici cittadini.
Le Unità Economiche di Progetto di Ricerca dovranno essere costituite dagli enti partecipanti alla ricerca (Università, Impresa, Enti Istituzionali) e registrate, gratuitamente, da un funzionario dell’Agenzia delle Entrate, senza l’intervento di un notaio, a cura di chi propone la ricerca da finanziare. Queste organizzazioni non fanno parte del registro delle imprese, hanno durata uguale alla durata del progetto, si avvalgono di personale, attrezzature e servizi conferite dai soci, non pagano imposte, né contributi, sono esenti dal pagamento dell’IVA. Una formula per avvicinare i piccoli imprenditori alla ricerca. Il personale conferito è dipendente strutturato delle organizzazioni conferenti. L’Università parteciperà al progetto utilizzando propri ricercatori interni e studenti del Dipartimento interessato alla ricerca, assunti, per lo scopo, con un contratto a progetto.
Alla chiusura del progetto di ricerca l’organismo a questo scopo creato cede all’impresa proponente il bene prodotto (i risultati della ricerca). Nel caso sia richiesto l’impresa può accedere a forme di pagamento dilazionato e senza interessi dei costi sopportati, dei costi di registrazione, del rimborso allo Stato dell’IVA e di qualunque imposta o contributo sospesa.
La restituzione del finanziamento avverrà con rate proporzionali al fatturato atteso (royalty), con un eventuale periodo di grazia corrispondente alla fase di avviamento sul mercato (il finanziamento verrà restituito a partire dal raggiungimento del break-even point economico del progetto per un tempo massimo di cinque anni, o se minore, alla durata della sua vita economica) sulla base del business plan approvato. La proprietà del bene è trasferita all’imprenditore solo in caso di rimborso totale del finanziamento.
L’Università rimane comproprietaria della ricerca e destinataria di una royalty commisurata all’impegno economico profuso, sui futuri ritorni economici. Le royalty costituiranno per le Università risorse aggiuntive destinate al finanziamento dei propri investimenti. In caso di mancato acquisto o di mancato pagamento, anche parziale, delle royalty la ricerca e i risultati raggiunti rimangono di proprietà dell’Università che ha diritto di registrarla a proprio nome e/o ad usarne i risultati per fini propri.
La proposta è dedicata al comparto della media, piccola e piccolissima impresa. Comparto che non ha certo il tempo, i mezzi né la professionalità per realizzare prototipi di nuovi prodotti o per sperimentare nuove tecnologie, ma che costituisce un importante motore per occasioni di sviluppo occupazionale, e di rinnovo dei prodotti.
Attualmente su un totale di 13.600 milioni di euro (dati 2001) le piccole imprese industriali (circa 536.000 imprese con meno di 50 addetti) e alle medie imprese industriali (circa 11.000 imprese con 50 – 250 addetti) partecipano all’8,50% del totale della spesa in ricerca e sviluppo. Le imprese spendono un totale di circa 6700 milioni di euro. I rimanenti 6.900 milioni di euro sono essenzialmente utilizzati per la copertura dei costi di gestione della ricerca pubblica.
Il comparto delle piccole imprese spende 696 euro/anno per impresa; il comparto delle medie imprese raggiunge i 70.571 euro per impresa/anno (rispettivamente 135 euro/anno e 735 euro/anno per addetto). Le grandi imprese ( imprese con più di 250 addetti) spendono 3,5 milioni di euro/anno per impresa (4.500 euro/anno per addetto), soprattutto per attività di sviluppo e aggiornamento prodotti. Spesa rimasta, mediamente, pressocchè costante (a costi 2001) negli anni 2002 /2003.
A questo tipo di progetto possono partecipare, con propri fondi e/o con proprie professionalità, gli Enti pubblici di ricerca, strutture sempre alla affannosa ricerca di una propria utilizzazione.
L’ipotesi è che si possa trasformare in un fondo di rotazione il finanziamento alla R&S e che si possano destinare alle piccole medie imprese fondi aggiuntivi per la ricerca e l’innovazione per un totale di circa 6.000 milioni di euro per i prossimi 3-4 anni. Questa politica scoraggia l’uso improprio dei fondi per la ricerca e potrebbe essere capace di avviare investimenti aggiuntivi in R&S pari a 10.000 milioni di euro/anno.
Un impegno che potrebbe essere sufficiente per portare a 1,9% il rapporto tra spese di R&S e PIL, annullando l’attuale divario con la media EU. Naturalmente si potrebbero ottenere benefici aggiuntivi per le imprese ed il paese se vi fosse un maggior controllo sulle spese dichiarate di sviluppo, spese che, spesso, si riferiscono ai costi di attezzaggio che nulla hanno a che fare con la R&S.
L’iniziativa potrebbe essere, inoltre, occasione per riportare verso cose concrete l’impegno dell’università. Ridandole efficienza e offrendole l’occasione di riallacciare contatti operativi con l’industria. Ma avrebbe anche il merito di ridare fiato all’asfittica economia del nostro paese.
La maggior parte di questo investimento è costituito da costi per addetti alla ricerca. Con una occupazione aggiuntiva stimata in 100.000-120.000 addetti equivalenti a fine periodo, con un effetto trascinamento che potrebbe quasi far raddoppiare gli attuali addetti equivalenti.
L’occupazione aggiuntiva potrebbe migliorare il tasso di disoccupazione relativo alle categorie più qualificate, quelle più danneggiate dall’attuale stato di crisi del paese, di vari punti percentuali. Con un volano per l’economia non indifferente. E con una straordinaria crescita della attuale potenzialità e per la competitività delle piccole medie imprese del nostro paese.
Aprile 2005 - Francesco Nunziata
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