martedì 28 settembre 2004

La riscoperta della Qualità

Abstract: Quale è il futuro industriale di questo paese? Un paese troppo piccolo per realizzare una concorrenza compiuta. Un paese senza innovazione e senza ricerca. Un paese senza imprese di dimensioni internazionali. Un paese orientato ad un mercato captive. Un paese che, nel comparto manufatturiero, si presenta con una occupazione media di nove /dieci addetti per impresa. Un sistema di aziende senza capacità manageriali.Un paese troppo piccolo per possedere una adeguata rete di associazioni dei consumatori. Un paese che non deve fare i conti con la qualità. Un paese che fa parte del novero dei paesi industrializzati ma che tenta di fare concorrenza ai paesi del terzo mondo.La soluzione per restituire competitività a questo paese: standard di qualità, certificazione ed etichettatura dei prodotti e ...dei servizi. Una soluzione di lungo termine che, nel breve, provoca salutari scossoni al tessuto industriale del paese; un investimento del paese per il paese, che, nel breve, è capace di mettere in moto le sue forze più qualificate.


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| Generalità | Il ruolo della Politica | Il Tessuto Imprenditoriale | La Cultura della Qualità | Il Progetto | I Riflessi Socio Economici | La Formazione alla Qualita’ |
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Il problema occupazionale, una volta considerato questione esclusiva dei Paesi ad economia debole, è invece diventato ormai da diversi anni una vera e propria emergenza generalizzata, che affligge le economie ed i sistemi economici di una gran numero di paesi industrializzati.
Come è stato verificato su scala mondiale, non è più vero come per il passato che l'incremento degli investimenti produttivi, la ripresa dell'economia o l'aumento della produzione siano fattori in grado di per se stessi di generare nuova occupazione.
Assistiamo invece ad un fenomeno relativamente nuovo per i Paesi ad economia industriale, rappresentato da forme di espansione economica che si accompagnano ad una stagnazione, e a volte ad una riduzione, dei livelli occupazionali. In questo quadro neanche l'industria italiana, suo malgrado inserita in un mercato globalizzato, ha, complessivamente, più spazi per creare occupazione aggiuntiva; né gli attuali livelli di sviluppo, fatto salvo gli eventi congiunturali, sono sufficienti a generare bisogno di nuova manodopera.
Il bisogno di competitività, in mancanza di innovazione, è stato raggiunto, in molti casi, attraverso l'automazione, o, in mancanza di un sistema di definizione del prodotto (specifiche) e di protezione del cliente finale, offrendo al mercato interno prodotti sostanzialmente più semplici ma di qualità inferiore, oppure attraverso l’utilizzo di forme surrettizie e temporanee di riduzione dei costi quali gli incentivi ed i contributi statali spesso ottenuti attraverso un cattivo uso dei fondi per la ricerca, fondi spesso utilizzati nel migliore dei casi per il semplice restailing del prodotto. Il rincantucciarsi nel proprio core business con la conseguente rinuncia alla innovazione e la successiva rinuncia, sotto i colpi dell'indagine Mani Pulite, ad una seppur in alcuni casi spericolata diversificazione ha, in questi ultimi anni, sconvolto l'organizzazione industriale e strategica delle nostre imprese maggiori spingendole ad espellere un gran numero di lavoratori, in alcuni casi qualificati. Ciò naturalmente non è vero per tutti i comparti; vi sono comparti, come quello della moda e dell’arredamento, che beneficiando della indiscussa capacità degli italiani alla creatività, innova continuamente i propri prodotti macinando così utili e successi sul mercato internazionale.
Nonostante questo nel settore dell'arredamento, dove siamo i leader assoluti, le aziende italiane si presentano con una media 6 addetti per impresa. In Germania questo tipo di aziende utilizzano mediamente 78 addetti. Ma, fatte salve le poche grandi imprese, la dimensione media si riduce a 3-4 addetti per impresa. Ciò, naturalmente, non permette di sviluppare azioni di marketing né di allestire reti di vendita, come sarebbe necessario per crescere. Aziende così minuscole non possono certo operare poi su un mercato globale. In realtà sono gli stessi imprenditori, poco più che artigiani, a non aver né voglia né capacità per crescere. Mancano, per raggiungere l’obiettivo di allargare le quote di mercato le necessarie capacità manageriali. Così che queste imprese rinunciano a fatturati dieci, cento volte maggiori di quello che la qualità dei loro prodotti e le richieste dei mercato potrebbero rendere invece possibile.
Insomma, anche le imprese del made in Italy si presentano con una struttura industriale debole, poco adatta a confrontarsi, sul piano della pura competizione economica, con il resto dei mondo. Ma il problema della dimensione delle nostre imprese riguarda tutti i settori. Se questa è per certi versi e per certi mercati una opportunità che permette di soddisfare un mercato di nicchia, e quindi i bisogni dei clienti più qualificati, questa stessa cosa non permette alle nostre imprese di essere creatori di occupazione aggiuntiva.




Cosi che il nostro sistema produttivo rinuncia in partenza ad essere una struttura industriale matura ed organizzata, preferendo rimanere un puro e semplice laboratorio artigiano nel migliore dei casi un mero subfornitore in altri casi.
La grande impresa, pur dovendo crescere in termini di fatturato, per poter competere con la concorrenza, sta riducendo sempre di più il numero dei propri occupati concentrandosi nell'area della "gestione del sistema" ed abbandonando sempre più l'area della "produzione", modificando così la propria organizzazione e riducendo sempre più il proprio personale di medio-basso livello, operai ed impiegati, a favore di addetti il più qualificati possibile e accrescendo inevitabilmente il costo medio unitario del lavoro.
La verità è che, in mancanza di una adeguata capacità di innovazione e di una adeguata qualificazione dei prodotti e delle imprese, le nostre grandi imprese si sono drasticamente ridotte di numero.
La media impresa, in assenza di capacità di innovazione propria ed in assenza di una disponibilità all'investimento in ricerca, sarà sempre più in affanno e cercherà, finché sarà possibile, la riduzione dei costi per rimanere sul mercato.
Questa riorganizzazione delle grandi e medie imprese, sia di produzione sia di servizi, rappresenterà però un'opportunità di breve medio termine per la piccola impresa, o per chi ha voglia di intraprendere, ma costituisce anche l'occasione per un sicuro scadimento della qualità dei prodotti e dei servizi offerti.

Il ruolo della Politica
Diventare l'economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, capace di una crescita economica sostenibile accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell'occupazione e da una maggiore coesione sociale è stato individuato come obiettivo strategico per i prossimi anni dal Consiglio Europeo di Lisbona nella propria riunione del marzo 2000. Questo obiettivo richiede, però, azioni consapevoli e strategiche che si devono connettere con la necessità di ottenere una chiara volontà delle imprese all'integrazione con l’ambiente circostante, cioè con i problemi sociali, ed ambientali, delle imprese, nelle loro attività commerciali e nelle loro relazioni con le altre parti: gli stakeholders, così come propone il Libro Verde dell’Unione Europea. Con "Stakeholder" si intendono coloro che hanno un interesse rilevante in gioco nella conduzione dell'impresa sia a causa degli investimenti specifici che intraprendono per effettuare transazioni con l'impresa o nell'impresa, sia a causa dei possibili effetti esterni positivi o negativi delle transazioni effettuate dall'impresa, che ricadono su di loro. Una lista ampia, ma non esaustiva, che comprende i Clienti/Consumatori, i Collaboratori, gli Investitori (azionisti o creditori), i Fornitori, i Partner commerciali, i Competitori, la Comunità circostante, la Pubblica Amministrazione e gli organismi di controllo, le Generazioni future (relativamente agli interessi ambientali). Tutti questi soggetti hanno interesse a come viene condotta l'azienda perché ne traggono benefici economici e sociali o perché temono di esserne danneggiati (per esempio, come si diceva, in termini ambientali).

Il Tessuto Imprenditoriale Italiano
Un comportamento responsabile può essere per le imprese la premessa di un successo commerciale duraturo. Ma questo obiettivo per essere raggiunto richiede comportamenti socialmente responsabili, comportamenti non possono essere limitati alla pura e semplice instaurazione di un rapporto di fiducia tra l’impresa ed i propri clienti ma che devono essere capaci di far durare l’impresa nel tempo, aiutandola a gestire il cambiamento conseguenza dei necessari processi di riorganizzazione trovando un compromesso tra le esigenze e i bisogni delle parti interessate o comunque coinvolte, in termini accettabili da tutti.
La capacità imprenditiva degli italiani, sia al Nord sia al Sud, si è dimostrata molto alta; è la cultura imprenditoriale che è estremamente bassa. Le piccole imprese non sopravvivono all'imprenditore che le ha generate, e spesso non sopravvivono all'idea imprenditoriale che le ha fatte nascere. Lo stesso fenomeno della mancata emersione dell'impresa sommersa, tanto diffusa tanto al nord che al sud del paese dimostra il livello di capacità imprenditoriale esistente. Tanto da far ritenere ad alcuni economisti che bastasse creare le condizioni per l'emersione per risolvere i problemi (delle statistiche) dell'occupazione.
Ma l'eventuale emersione del sommerso non necessariamente è capace di generare nuova occupazione.
L’impresa sommersa, specie al sud, è essenzialmente sollecitata da un circuito di commercializzazione parallelo non ufficiale, cui, peraltro, attinge a piene mani anche il circuito di commercializzazione ufficiale che basa il proprio successo sulla competizione del prezzo e sulla possibilità di riempire gli spazi disponibili offerti dall'evasione fiscale. Questo circuito immette sul mercato prodotti di basso livello qualitativo, prodotti cioè che non rispondono ai requisiti di utilizzo (specifiche), spesso veri e propri falsi, ed in competizione con prodotti provenienti dai paesi poveri, prodotti questi che, spesso, sono sorprendentemente di qualità superiore. Ciò vuol dire che le aziende del mondo del sommerso devono necessariamente essere competitive utilizzando occupati con costi del lavoro da terzo mondo.
La disponibilità di strutture di supporto allo sviluppo di impresa, cioè la formazione di una cultura imprenditoriale e sociale, rappresenta una via per spingere tutti questi imprenditori verso attività lecite e capaci di futuro sviluppo, come rappresenta una opportunità, se ben gestito, l’ampio serbatoio di risorse e di capacità disponibile al sud del paese. Strutture di supporto significa far funzionare i servizi al sud, e se possibile, renderli migliori di quelli offerti al nord dei paese; migliorare le reti (stradale, telefonica, elettrica, ecc.) rifare completamente la rete ferroviaria, rendendola più veloce e arretrandola rispetto alla costa, restituendola così alle popolazioni per migliorarne la ricettività turistica; costruire nel nord-est dei paese strade scorrevoli e veloci capaci di sopportare il traffico commerciale, rendendo così più semplice i trasferimento delle merci verso i paesi dei nord Europa; per tutto il paese mettendo in piedi una task force che attraverso un "Progetto di formazione integrato" metta i giovani di queste aree rapidamente ad un livello di formazione industriale e manageriale di base equiparabile a quello dei giovani degli altri paesi europei, per generare occasioni di sviluppo e maggiore occupazione e per soddisfare con il circuito legale dei lavoro. Se solo uno di questi servizi funzionasse nelle regioni meridionali, almeno come funzionano nel nord del nostro paese, alcune delle lavorazioni che ingolfano il nord e che sono attualmente affidate in alcuni casi a lavoratori stranieri potrebbero essere trasferite al sud con uno dei tanti capireparto di origine meridionale che sarebbe felice di concludere la propria stagione lavorativa con una sua impresa a casa sua. Un progetto che meriterebbe l’interesse delle governo.
Una sorta di spin off che ridarebbe la flessibilità alle imprese e che permetterebbe di favorire lo sviluppo delle imprese del nord, senza costringerle ad investire in luoghi con culture e tradizioni non compatibili con la cultura dell’imprenditore investitore, o a tentare una improbabile clonazione della propria impresa nel paesi dell’est con un percettibile scadimento della qualità dei prodotti e un considerevole aumento dei costi della catena logistica.

La Cultura della Qualità
A fronte dello scenario descritto, portare avanti un serio progetto di valorizzazione della qualità a favore della crescita culturale di tutto il sistema produttivo italiano rappresenta una concreta strategia di medio-lungo termine.
Questo vuol dire essenzialmente formazione del Dirigente d'Azienda e del personale tutto, utilizzo di serie strutture di progettazione di prodotto e di interventi organizzativi. Interventi costosi che riguardano essenzialmente le piccole-medie aziende, aziende che sinora hanno operato con schemi organizzativi basati sulla capacità di singole persone, e la Pubblica Amministrazione, che non ha ancora conoscenza né formazione sul concetto di qualità nell’offerta di servizi.
Per le medie aziende che operano già sul mercato competitivo, o per le piccole aziende che a questo fanno riferimento, gli stessi committenti richiedono sempre più che queste operino con sistemi di qualità conformi a specifiche norme e in alcuni casi richiedono anche che detti sistemi di qualità siano certificati. Ma certo questo non è sinora bastato a fare entrare la qualità nel DNA aziendale. Per queste aziende l’avere attenzione al rispetto delle specifiche dettate dall’impresa cliente non sempre corrisponde a possedere una autonoma cultura della qualità di prodotto, ma di certo non significa che queste imprese abbiano una qualche idea dei doveri derivanti dall’essere immerse nel contesto sociale ed ambientale che le ospita.
Le medie-grandi imprese industriali hanno già una propria cultura della qualità dell'organizzazione e delle procedure, in caso contrario non potrebbero, infatti, sopravvivere alla concorrenza, ed hanno una discreta attenzione alla qualità del prodotto non hanno sviluppato la necessaria capacità imposte dall'essere in un contesto competitivo.

Il Progetto di Valorizzazione della Qualita’
La costruzione di un serio progetto di valorizzazione della qualità nel sistema produttivo italiano richiede di definire con chiarezza i confini dell'intervento. Cose ben diverse, in termini di finalità, sono i sistemi di gestione aziendale orientati alla Qualità, quelli orientati alla Sicurezza, i Sistemi orientati al rispetto dell'Ambiente, seppur tutti riconoscibili nell'ambito del concetto complessivo di qualità. L’obiettivo dell'intervento deve essere orientato alla creazione di una seria cultura della qualità nel sistema produttivo del paese, lasciando ad altri specifici interventi la Sicurezza e l'ambiente. Allo stesso modo i Sistemi di Gestione aziendale orientati alla Qualità riguardano aree diverse: i processi, l'organizzazione ed i prodotti.
Investire in un concreto sistema orientato alla qualità richiede di realizzare azioni di auditing, della situazione attuale, di progettazione del sistema di qualità, di Formazione del personale. Ben tenendo presente che la Certificazione, anzi le Certificazioni, di qualità dell'organizzazione, dei processi, dei prodotti, richieste ad organismi terzi accreditati e/o notificati, rappresenta solo l'atto finale e formale di tutto un processo che deve essere essenzialmente culturale.
Una impresa connessa con i propri stakeholders e che aspiri ad ottenere la certificazione del proprio bilancio sociale deve essere essa stessa, in tutta la propria organizzazione, una impresa culturalmente preparata alla qualità.
La qualità dei prodotti e dei servizi offerti rappresenta il cuore del rapporto tra impresa ed i propri stakeholders. La qualità fidelizza il rapporto tra impresa e cliente, determinandone il successo nel mercato; la qualità è il collante che lega l’impresa ai suoi collaboratori e dipendenti che si sentono parte vibrante dell’azienda e non mero strumento di produzione; la qualità esalta il rapporto tra l’impresa ed i propri fornitori che sentono proprio il successo commerciale del proprio cliente; la qualità rappresenta l’obiettivo di un buon investitore che vede nella continuità dell’impresa il ritorno del proprio investimento; la qualità e la continuità dell’impresa permette al finanziatore di ritrovare in un rapido e certo break even il ritorno del proprio investimento finanziario; è nella qualità dell’impresa e dei suoi processi produttivi che la comunità fa conto perché l’impresa risulti non inquinante ed ambientalmente sana; ed infine è nella continuità, risultato della qualità complessiva dell’impresa, che l’amministrazione pubblica locale e centrale fa conto per la stabilità, e presumibilmente la crescita, dell’occupazione e per la copertura dei costi amministrativi e previdenziali a questa connessa.
Un serio progetto di implementazione della qualità deve fare perno su un vasto programma di formazione che ponga la qualità come stile di vita delle aziende italiane. La cultura della qualità non può essere imposta. La qualità dell'organizzazione, dei processi, dei prodotti è effetto combinato di una profonda cultura imprenditoriale e di un'aspra competizione di mercato. Lo Stato può solo orientare tale cultura dando strumenti di difesa ai consumatori cioè definendo le specifiche per quei prodotti che, attraverso l’artificio di un prezzo superconveniente, sfuggono alla competizione del mercato, aprendo il più possibile il mercato alla competizione, senza creare inutili e dannosi carrozzoni di controllo.
Una seconda azione potrebbe essere quella di costringere le aziende meno lungimiranti a comportamenti orientati alla qualità dei beni prodotti, per esempio, mettendo in atto strumenti (etichette) che permettano ai consumatori, uno dei più importanti tra gli stakeholders, di individuare con certezza di che prodotto o servizio si tratta, il produttore del bene o del servizio acquistato (ragione sociale, indirizzo, numero telefonico dell’assistenza clienti, ecc.) e le specifiche cui il prodotto fa riferimento; allargare a tutti i prodotti la normativa sulle informazioni, sull'uso e la manutenzione dei prodotti e le relative garanzie; attivare processi di definizione univoca delle specifiche di prodotto, includere nella responsabilità del produttore le attività di vendita, montaggio o installazione.
L’idea, che nel nostro piccolo paese (dal punto di vista della dimensione del mercato applicabile) i prodotti delle nostre aziende possano essere “certificati”, cioè possano essere promossi o bocciati, dal mercato è del tutto insussistente. Non vi è una adeguata informazione, non vi è più cultura alla scelta, non vi sono, né vi possono essere, associazioni rappresentanti i consumatori con risorse adeguate a contrastare prodotti falsi o pericolosi. Prodotti, spesso importati, di qualità scadente. Ma anche, recentemente, prodotti di aziende nostrane che, alla ricerca del paese con il costo del lavoro più conveniente, hanno di fatto scadere il livello di qualità dei propri prodotti svendendo la propria tradizione di qualità. Gente che ha preferito monetizzare una inattesa ed insperata buonuscita dal settore alla continuità dell’impresa.
Un'azione concreta ed immediata che il Governo può e deve fare è quella di recepire immediatamente tutte le direttive europee e, per evitare la colonizzazione tecnologica, porsi nelle condizioni di attivare un progetto che permetta alle imprese italiane di essere esse stesse promotrici di specifiche per ottenere direttive allineate con le tecnologie nazionali, così come si sta facendo in questi ultimi anni con i prodotti alimentari tipici. La recente introduzione dell’obbligo di indicare sui cartellini dei dettaglianti dei prodotti agricoli la varietà e la qualità del prodotto oltre a rappresentare una azione antifrode rappresenta una azione tesa ad aumentare la conoscenza dei consumatori.
L’Amministrazione dello Stato come utilizzatore ed acquisitore di beni e servizi può rappresentare un importante agente di regolazione della qualità dei prodotti. Tale regolazione può essere svolta da più enti quali per esempio il Provveditorato Generale del Ministero del Tesoro e della Programmazione Economica, le strutture di acquisto che fanno capo al Ministero della Difesa, le strutture che fanno capo al Ministero della Sanità, le strutture che fanno capo al Ministero dei Lavori Pubblici, ecc. Ciascuna di queste strutture, pur lasciando ai singoli acquisitori dell'Amministrazione periferica la responsabilità dell'acquisto, dovrebbe creare una banca dati informatizzata, e costantemente aggiornata, che contenga le specifiche dei beni e dei servizi acquistati. In pratica, ciò permetterebbe di definire "standard" di qualità per ciascun prodotto/servizio per gli acquisti delle Amministrazioni periferiche (Regioni, Province, Comuni, ecc.) e di riferimento per il mercato. Ciò permetterebbe peraltro di verificare con estrema chiarezza i prezzi pagati da ciascuna Amministrazione Pubblica a parità di oggetto acquistato, con un evidente riduzione degli attuali sprechi. Quello che in questo momento sta facendo la CONSIP. Queste conoscenze accumulate potrebbero e dovrebbero essere finalizzate a creare una banca dati le specifiche dei beni e dei servizi facendo coincidere in modo univoco definizione del prodotto e specifiche del prodotto stesso. In pratica, ciò permetterebbe di assegnare a queste strutture la funzione di fornire “standard” per i prodotti e per i servizi acquistati. A favore sia di Amministrazioni periferiche, favorendo così la creazione di una cultura della legalità, sia a favore dei cittadini che delle imprese, in una spirale di auto apprendimento amministrazione-imprese-cittadini-imprese-amministrazione.
L’attuale mancanza di definizione sei prodotti e dei servizi acquistati, e la mancanza di chiare regole di contabilizzazione degli acquisti in beni durevoli e degli investimenti è la principale causa della diffusa corruzione e dell’instaurarsi di comportamenti illegali.
Lo Stato può assumere un proprio ulteriore importante ruolo quale ente concedente servizi (ferrovie, autostrade, aerolinee, telefoni, televisioni. ecc). Le società concessionarie dello Stato devono rispondere al concedente (lo Stato e la comunità tutta) non solo del prezzo praticato, ma soprattutto dei livello di servizio offerto. Il contratto di concessione che lo Stato sottoscrive deve contenere una chiara, dettagliata ed univoca definizione dei servizi offerti, definendone con chiarezza le specifiche.
Per questo devono essere messi in atto strumenti di controllo congrui che permettano di verificare che le tariffe siano adeguate al servizio offerto e che le specifiche per cui quel prezzo è stato stabilito siano rispettate, non come avviene ora dove ad ogni piè sospinto le ferrovie annunciano un nuovi servizi al solo scopo di aumentare impropriamente le tariffe declassando a parità di prezzo praticato e di denominazione il servizio sin a quel momento reso (vedi l'introduzione dei servizio Eurostar e l'evidente declassamento dei servizio Intercity, che non ha visto alcuna riduzione di prezzo), o quando la Telecom introduce e promuove a dismisura il servizio cellulare senza avere a disposizione frequenze capaci di soddisfare l'utenza, o quando la società Autostrade costringe l'utente a pagare un sovrapprezzo per il servizio Telepass, servizio che produce all'azienda un netto risparmio di gestione o come quando, in barba a qualunque criterio di sicurezza della circolazione stradale comunque sancito, questa si limita a gestire nastri di asfalto forse ben tenuti ma sicuramente privi di qualsiasi sistema di assistenza e di controllo e di gestione dei flussi di traffico.
Anche nel ruolo che lo Stato assume come difensore della salute dei cittadini potrebbe essere potenziata una seria struttura di certificazioni dei prodotti che riguarda direttamente, e preventivamente, la salute delle persone, una sorta di Food & Drug Administration italiana.
Per quanto riguarda, invece, il ruolo dello Stato come fornitore di servizi ai cittadini ed alle imprese non sarà necessario dire più di quanto noto. Nonostante gli sforzi delle varie leggi Bassanini, un primo vero risultato in questo campo verrà solo da una seria azione di formazione e da una rivoluzione nell'organizzazione del lavoro nella struttura pubblica che sia capace di trasformare una struttura organizzativa sviluppata per singolo compito, spesso ad personam, verso una struttura organizzativa sviluppata per responsabilità verticale.
Strumenti di controllo seri e concreti devono invece essere rafforzati e se necessario costituiti nell'area della sicurezza individuale come per esempio andrebbe rafforzato il Registro Aeronautico Italiano, andrebbe ristrutturato il Registro Navale Italiano andrebbe ricostituito un ente autonomo capace di certificare la sicurezza dei mezzi di trasporto terrestre (ferrovie in testa), andrebbe costituita una seria Food & Drug Administration Italiana.

I Riflessi Socio Economici di una Seria Politica di Qualita’
La struttura produttiva del nostro paese, così sbilanciata verso un mercato captive e verso la piccola e piccolissima impresa, risentirà pesantemente di una concreta azione di qualificazione dei prodotti.




Dei circa 3,7 milioni di imprese (industriali e di servizio) attive, 2,4 milioni ( il 65%) sono imprese individuali. Le società di persone rappresentano il 21%, le società di capitali rappresentano il 12%.
Le società che operano nel campo delle attività manifatturiere sono circa 640.000 e rappresentano appena il 17,4%, del totale ( agricoltura, industria, servizi, stato) delle imprese. Queste imprese operano con un numero di addetti medio di 9 dipendenti ed un fatturato medio di 2,2 miliardi di vecchie lire (1,1 milioni di euro)/anno.
Di queste, come con difficoltà si riesce a leggere dal grafico, solo 62 hanno più di 2000 dipendenti e un fatturato medio di 1,5 milioni di euro (dati riferiti all’ultimo censimento ISTAT).



Ma quello che più conta è che di queste solo 555 sono le imprese che hanno più di 500 addetti. Sono invece ben 556.800 le imprese con meno di 50 addetti di cui ben 530.000 quelle con meno di 20 addetti.
Insieme costituito da una parte da una miriade di subfornitori che operano in un mercato rigido e senza grandi opportunità di crescita, con la sola flessibilità di assumere o di licenziare, dall’altro una miriade di artigiani che operano in particolari nicchie o per un mercato locale.
Nel breve termine una politica di qualificazione dei prodotti porterà ad una trasformazione del circuito del sommerso, che non avrà più spazio per i propri prodotti. Molte aziende dovranno chiudere, altre emergeranno. Il saldo sarà certamente negativo, per l'occupazione sommersa.
Ma porterà anche a favorire la riorganizzazione della miriade di piccole e medie imprese nate nel recente passato dalla capacità imprenditiva di intraprendenti capireparto che ormai al limite della propria carriera di imprenditori sono costretti a lasciare a favore dei propri figli spesso non disponibili a perpetuare l’impresa.
Nel lungo periodo, una seria politica di orientamento alla qualità dei prodotti e dei servizi dovrebbe, invece, portare ad una riorganizzazione della struttura produttiva ufficiale, facendo così riconquistare al paese quei posti di lavoro persi dalla progressiva naturale eliminazione del sommerso. Contemporaneamente un serio controllo dell’applicazione delle specifiche metterà fuori mercato la produzione di prodotti non certificabili provenienti dai paesi emergenti mettere al proprio posto nella scala gerarchica della qualità le produzioni scadenti con il conseguente riaprirsi alle imprese nostrane di aree di mercato altrimenti perdute.
Il risultato macroeconomico è quello che a queste condizioni la competizione si giocherà a pari livello ma soprattutto a livello più alto, dovendo per forze di cose anche il produttore dei paesi meno qualificati, che usano manod’opera impropria e non qualificata sarà costretta a qualificarsi, e formare il proprio personale. Quindi, assumendo che, superato un certo limite, l’equazione maggiore qualità corrisponda a maggiore professionalità e tecnologia utilizzata, maggiore professionalità corrisponde a lavoro più qualificato e per questo sottoposto ad un minor divario di costo tra i vari paesi, maggiore tecnologia applicata corrisponde a costi comparabili (l’ammortamento delle macchine e/o delle tecnologie utilizzate).
Per le piccole e piccolissime imprese, che operano sul mercato aperto e competitivo vi sarà, quindi, una dura selezione che farà uscire dal mercato le aziende più deboli, mentre farà evolvere verso la media dimensione le aziende titolari di prodotti di qualità. Questo fatto renderà naturalmente queste imprese capaci di competere su mercati più ampi che non quello locale o regionale sui quali sinora si erano misurate. Sempre che queste aziende siano capaci di rafforzare la propria struttura imprenditoriale con personale qualificato.
Le medie grandi imprese dovrebbero già essere in grado di qualificare, senza scossoni per i propri livelli occupazionali, il proprio ciclo produttivo, la propria struttura organizzativa ed i propri prodotti. Tutti quelli che sinora non avessero proceduto ad una formale certificazione di qualità dei propri processi, della propria organizzazione e dei propri prodotti saranno costretti dal mercato a qualificarsi.

Il Progetto di Formazione alla Qualita’
L'implementazione del Sistema Italiano della Qualità deve contare su un vasto programma di formazione, che ponga la qualità come stile di vita delle aziende italiane e non solo come un mezzo di spot televisivo.
La cultura della qualità passa attraverso un processo di riappropazione dei principi etici del rapporto tra produttore e consumatore che travalica il concetto stesso di formazione del personale; ma passa anche attraverso il miglioramento dei sistemi organizzativi e produttivi utilizzati dal sistema industriale italiano.
Queste azioni, che possono dare importanti frutti solo in un periodo medio lungo, passa attraverso la formazione dei giovani e la riqualificazione di management disponibile. Cioè attraverso l'introduzione nelle aziende, specie le medio-piccole, di linfa nuova. Non sarà un corso di due o tre giorni rubati ai problemi impellenti della produzione, ad introdurre nelle aziende la cultura della qualità. Da una parte un'adeguata mobilità orizzontale di quadri e di forze dirigenziali da aziende più grandi, e meglio organizzate, verso aziende medio-piccole può accellerarne il processo di ammodernamento. Dall'altra parte l'adozione di un serio progetto di formazione dei giovani, affidato ai giovani, che permetta loro, con il supporto di un tutor, di entrare in azienda già preparati ai temi complessivi dell'organizzazione, del mercato, della gestione e della qualità.
E’ infatti sui giovani, che hanno una maggiore sensibilità all’ambiente ed ai problemi dell’interazione tra produzione e società civile, che bisogna far leva per far adottare alle imprese comportamenti compatibili con le regole della “Etica e Responsabilità Sociale d’Impresa” sottostanti alla adozione del Bilancio Sociale dell’Impresa.
Il progetto potrebbe rimettere in moto tutto il sistema formativo del paese e avrebbe il merito di portare un efficace contributo nell'immediato ai problemi della disoccupazione giovanile e a quelli degli... anziani-giovani, in altre parole di quelle persone che il sistema produttivo ha espulso per propria rinuncia allo sviluppo e che ha messo, di fatto, a disposizione della comunità che al momento non è capace di utilizzarle: una grande massa di persone più o meno "acculturate" che non sono in nessun modo utilizzate, anzi, grazie agli strumenti legislativi vigenti, sono allontanate da qualsivoglia attività produttiva.




sabato 11 settembre 2004

ALITALIA, una proposta per una crisi annunciata

Abstract: I problemi di Alitalia sono stati affrontati con la superficialità con la quale i "politici" normalmente affrontano i problemi di politica industriale del paese; non meglio è stato affrontato il problema degli esuberi del personale . Voler paragonare Alitalia ad una compagnia low cost è come confrontare pere con patate. Se Alitalia deve competere con le compagnie low cost sarà meglio scioglierla. Nei discorsi dei nostri politici normalmente le professionalità presenti nelle aziende vengono confuse (e trattate) nel calderone (del … numero) dei dipendenti. Siamo un paese che pensa ancora in termini di capannoni, macchine e teste, che non si è accorto che le aziende del mondo industrializzato utilizzano la "conoscenza e l'esperienza" come proprio asset, avendo devoluto ai paesi del terzo mondo la "produzione". Il personale di Alitalia è un asset che, per esempio, manca, ancora, a Trenitalia. Società che non è assolutamente capace di produrre un servizio adeguato ai normali standard qualitativi del settore. Sarebbe sicuramente più produttivo per Ferrovie dello Stato investire in "servizio al passeggero" piuttosto che in "nuove stazioni ".

Le chiare analisi apparse sulla caso Alitalia (ma per il nostro paese e davvero un caso?) nelle scorse giornate confermano ciò che a molti era già visibile: la crisi Alitalia viene da una incapacità dei vertici della società nello scegliere la propria area di mercato e dall’arrogante rifiuto di realizzare concrete alleanze produttive con altre compagnie europee.
La nostra compagnia di bandiera si è trovata ad operare in un mercato di dimensioni troppo piccolo in riferimento alla struttura organizzativa che si era data, e quindi ai propri costi, quale è quello italiano. Ma vi erano le sovvenzione statali e i contributi regionali che saldavano l’evidente insufficienza di ricavi.
Ed è stato questo uno dei maggiori problemi di questa società, il rifugiarsi per anni nel, per qualche verso, comodo ma inesistente mercato captive senza aver mai tentato di scegliersi un proprio mercato di riferimento, come è capitato a tante aziende private e a tantissime aziende parastatali italiane. Senza contare gli errori nella strategia degli investimenti con acquisti di velivoli dettati più da ragioni politiche che industriali ed appesantiti da diseconomie derivanti dalla necessità dell’azionista di supportare l’occupazione di aziende terze decotte imponendo all’Alitalia di favorire improbabili compensazioni industriali: acquisti di velivoli contro lavoro (di scarso livello tecnologico!) per l’industria aeronautica italiana.
Finchè non sono intervenuti processi evolutivi quali la chiusura dei cordoni della borsa da parte dello Stato, la liberarizzazione, la liquidazione dell’IRI, che ha tolto alla compagnia sia la possibilità di vedersi ripianare a cuor leggero i debiti sia le non insignificanti quote di mercato provenienti da questa area di mercato. Ed
em>è stato questo il momento in cui è eslposa la contraddizione non risolta da nessuno dei vari manager che si sono man mano succeduti.
Pur avendo ancora in piedi una struttura organizzativa da compagnia di bandiera, si è scelta la via dello scontro sul piano dei voli a basso costo con aziende più agili nate nel frattempo per servire tale mercato, rendendo incompatibili le esigenze proprie di questo tipo di mercato con la propria capacità di offrire un servizio qualificato e .. di bandiera.
A questo si è aggiunto l’arroganza e la stupidità di non capire che senza una politica di alleanze europee sia in termini di gestione che in termini di investimenti si sarebbe giunti al punto in cui siamo, con la scelta di tagliare posti di lavoro qualificati, con il rischio che qualcuno pensi al loro prepensionamento.
Lo stesso inqualificabile errore fatto con le Ferrovie dello Stato, società alla quale si è permesso, dietro l’offerta di un servizio, che è solo mediatico, quale è quello offerto dal servizio Eurostar, di smantellare, di fatto, un potente e capace complesso industriale, stravolgendo così la missione di servizio pubblico riservata da sempre a questa azienda, con il risultato di aver impoverito le capacità tecniche dell'azienda mandando in prepensionamento decine di migliaia di lavoratori qualificati, promuovendo sindacalisti capaci (sic!) a manager, incapaci, e allargando a dismisura la voragine dei conti INPS.
Le Ferrovie dello Stato, così operando, hanno scelto di privilegiare una fetta di mercato che non è sicuramente la propria, con il risultato di offrire un servizio, comunque scadente, ad un limitato mercato di opinion makers su poche linee privilegiate, coprendo, così, con con un velo la propria disfatta manageriale: la disfatta della tanto decantata via del primato del trasporto su ferro.
Due casi da studio, due debolezze che potrebbero trasformarsi in due forze se il sistema politico italiano fosse capace di fare politica industriale e non solo finanza creativa. Forse, checchè se ne dica, manca al paese una struttura manageriale di controllo strategico come era l’IRI e che non riuscirà mai ad essere sostituita dalla debolezza manageriale di Sviluppo Italia, cosa che sembra stia, con i fatti, perseguendo il nostro Ministro del Tesoro.
All’Alitalia bisogna, a meno di non liquidarla, ridare la possibilità di operare nella sua naturale nicchia di mercato dove è richiesto un servizio ricco e qualificato e dove possono essere espresse tutte le potenzialità dell’ancor esistente organizzazione Alitalia. E naturalmente bisogna lasciarla libera di allearsi operativamente con un vettore europeo. Vendere l’Alitalia a cordate private è di fatto una non soluzione. Chi la compra non piò che procedere al suo smantellamento. Creare un bad company o dividere semplicemente la compagnia in più società è un insulto all’intelligenza. L'Alitalia per ritrovare il suo mercato ha bisogno di tempo, tanto tempo e non certo i mesi che i politici stanno assegnando ad un povero cristo di presidente, che non conosce niente di aziende di trasporto.. aereo.
Le Ferrovie dello Stato, per altro verso, devono essere riportate al loro proprio core business lo sviluppo del servizio pubblico. Attualmente l’attenzione manageriale di questa impresa è tutta focalizzata sul servizio per le linee a più alta frequenza, le direttrici che da Roma vanno verso il Nord del paese e per le linee che, si può affermare impropriamente, sono definite ad alta velocità e che hanno la pretesa, mancata, di offrire un servizio più qualificato.
Linee con materiale rotabile nuovo ma non certo più veloce e confortevole di quanto lo fossero, al loro tempo, gli Intercity e pretesa, mancata, di offrire un servizio qualificato. La struttura storica delle ferrovie è e rimane di origine industriale (treni e binari) e non ha alcuna idea di cosa significhi e come si debba organizzare un servizio al cliente, tantomeno un servizio di trasporto qualificato. Con il concreto rischio di venire travolti dalla prossima liberalizzazione che vedrà nuove imprese più agili e con meno pesi e regole offrire servizi migliori e più competitivi. Cosa che produrrà necessariamente un nuovo pacchetto di esuberi (si parla di ulteriori 30.000 ferrovieri da prepensionare!).
Due debolezze che, come detto, potrebbero trasformarsi in due forze se si avesse il coraggio politico e organizzativo di apportare il ramo d’azienda che attualmente gestisce per le Ferrovie dello Stato i servizi “ad Alta Velocità” all’Alitalia.
I circa 2000 esuberi Alitalia costituirebbero linfa vitale per questo particolare servizio ferroviario, arricchendolo. Di contro, l’Alitalia, liberate di un numero importante di risorse attualmente ritenute, non del tutto a ragione, eccedenti, potrebbe dedicarsi a ridisegnare, perseguire ed implementare una strategia di sviluppo, compreso la scelta del miglior alleato operativo possibile, abbandonando la corsa suicida verso l’offerta di servizi a basso costo.
Le Ferrovie dello Stato, liberate di un falso obiettivo, potrebbero focalizzarsi sul miglioramento dell’offerta di servizio pubblico e potrebbero dedicare la propria attenzione manageriale allo sviluppo delle linee e del traffico nelle zone ancora poco e mal servite ma sopratutto potrebbero dedicarsi con più interesse manageriale allo sviluppo del servizio merci: ritornando alla propria missione di operatore essenziamente e naturalmente pubblico. Per di più lo Stato Patrimoniale rafforzato dal conferimento del ramo d’azienda permetterebbe all’Alitalia di raggiungere, con tranquillità, i risultati attesi dalla ristrurazione con minore affano.
Un progetto questo, ciòè il tentativo di inserire in un unico contenitore industriale il trasporto pubblico omogeneo non nel senso del mezzo usato ma nel senso del mercato servito, studiato dai vertici di Ferrovie ed IRI negli anni novanta e affondato con colpevole insipienza dagli allora dirigenti operativi delle due imprese.

martedì 7 settembre 2004

Democrazia e Controllo dei piccoli comuni turistici (3)

Abstract : Le modifiche, in termini di autonomia, della legislazione riguardante i comuni, la trasformazione di questi in "centri servizi" finanziariamente autonomi, il colpevole mancato adeguamento dei sistemi di controllo ha aperto la strada, specificamente per i piccoli comuni, a possibilità di manipolazione del bilancio. Con risultati significativi sul rispetto dei parametri del Patto di Satabilità. La determinazione dei residui attivi rappresenta per i piccoli comuni, specie quelli turistici, spesso una oppoertunità per evitare il commissariamento. La soluzione: ridefinire le regole di nomina, e le caratteristiche, del Revisore dei conti, unica figura rimasta a presidiare il controllo contabile di questi enti.

Una questione rilevante che se non gestita rischia di far saltate i limiti imposti dal Patto di Stabiltà.
L'analisi dei dati del Censimento ISTAT del 2000 mostra come dei 7.436 comuni con meno di 15.000 abitanti (circa il 92% degli 8100 comuni italiani, circa il 42% della popolazione residente) custodiscono il 46,4% del totale patrimonio di unità abitative del paese. Questi comuni posseggono il 62,8% del patrimonio abitati del paese non utilizzato dai residenti. In questi comuni le abitazioni non utilizzate dai residenti rappresentano il 36,1% di quelle utilizzate. Tra questi per ben 4.000 comuni le abitazioni occupate dai residenti rappresentano la metà di quelle disponibili. Per 1100 comuni il rapporto sale a 3,4 , fino a raggiungere un massimo di 18 abitazioni disponibili per ogni abitazione occupata dai residenti.
Questi comuni, pur avendo le "caratteristiche economico-finanziarie" di un comune di "classe demografica" superiore, non sono sottoposti ad alcuni importanti controlli del Patto di Stabilità nè, di fatto, al controllo della
La questione: la recente attuazione del decentramento amministrativo ha portato per molte amministrazioni comunali la necessità di accellerare i processi di autofinanziamento. Questo è stato realizzato sopratutto attraverso una più puntuale applicazione dell'ICI, una più puntuale fatturazione relativa alla fornitura dei servizi, gestione reflui, acquedotto, raccolta dei rifiuti solidi urbani e di molte altre imposte. L'applicazione di questo nuovo rigore non sembra però essere stato realizzato, in questi primi anni di applicazione, in modo trasparente, specie per i piccoli comuni e specie in quei contesti, i comuni turistici, dove le abitazioni presenti sul territorio sono di molto maggiori di quelle occupate e per di più intestate a cittadini sconosciuti all'anagrafe. Molti di questi comuni hanno dovuto allestire una banca dati alternativa all'anagrafe stessa. Attività che è stata per lo più affidata a terzi attraverso contratti capestro, con costi finali che hanno eroso gran parte di quanto effettivamente al momento incassato e con risultati scadenti.
Ma quel che più conta è che questo lavoro, a quasi dieci anni dall'avvio del decentramento amministrativo, non ha permesso di concludere il processo di definizione univoca dell'anagrafe dei contribuenti, creando un gran volume di residui attivi, un ampio contenzioso e nei comuni più piccoli e con più alto rapporto abitazioni/famiglie, cioè nei comuni turistici che possono contare su un alto volume di entrate da cittadini non votanti, la discrezionalità figlia del caos potrebbe aver prodotto occasioni di voto di scambio.
Il rischio è che i bilanci di questi comuni, che non passano, di fatto, sotto la lente del controllo di congruità, sia perchè la cosa non è prevista del Decreto Legislativo 18 agosto 2000, n. 267, TESTO UNICO DELLE LEGGI SULL'ORDINAMENTO DEGLI ENTI LOCALI, che limita alcuni importanti controlli ai comuni con popolazione superiore a 5000 abitanti residenti, ma anche a causa della classificazione (classi demografiche riferite ai soli cittadini residenti) utilizzata, contengano volumi di residui attivi in gran parte aleatori (1) .
In tempi di vacche magre con il continuo contrarsi dei finanziamenti statali e con i vincoli alla crescita della spesa, gli amministratori di questi comuni devono garantirsi il voto futuro e la continuità. In presenza di parametri di controllo inefficaci, con rapporti di congruità che utilizzano un denominatore non congruo, il numero dei cittadini residenti, e potendo spendere il gran potere offerto alle amministrazioni di questi piccoli comuni turistici viste le semplificazioni del controllo che il dl 267 offre e, in qualche caso, una gestione furbesca dei residui attivi, incasso futuro di imposte passate, è la soluzione per evitare il commissariamento fino alle successive elezioni.
Si tratta di volumi considerevoli (2). Un possibile errore di attribuzione o, come troppo spesso capita, la possibile duplicazione dei soggetti tassati rispetto al bene da tassare, vedi il caso delle proprietà in comunione dei beni o in comproprietà, il numero degli anni da riscuotere, le partite in gioco, ICI, Tarsu, Servizio Idrico Integrato, le eventuali penalità per ritardato pagamento appostate, ecc. possono dare il senso del volume di danaro in gioco (3) per ciascun soggetto eventalmente inserito non correttamente negli elenchi.
Scarti anche di qualche punto percentuale rispetto al totale atteso di incassare possono avere un peso determinante sulla credibilità del rapporto disavanzo Pil tenuto conto che dopo tanti anni di mancata esazione l'errore possibile sulla autenticità del titolo a recuperare si fa sempre più grande.
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(1) La Deliberazione n. 6/2003 della Corte dei conti – Sezione autonomie osserva - "Come già osservato in passato, pur mostrando una situazione di amministrazione positiva, la maggior parte delle gestioni di competenza degli Enti considerati (il 61,5% delle Province, il 70,8% dei Comuni ed il 54,5% delle Comunità montane) presenta invece un disavanzo: gli avanzi di amministrazione sono quindi raggiunti per lo più solo grazie alla gestione dei residui. Una persistente diffusione di squilibri nelle gestioni di competenza costituisce un fenomeno che suscita di per sé rilevanti perplessità. E’ infatti da considerare che mentre l’attendibilità dei dati della gestione di competenza dipende solo dalla correttezza degli accertamenti e degli impegni, l’attendibilità dei residui dipende anche dall’accuratezza dell’annuale operazione di revisione che conduca ad un giudizio positivo sull’esistenza di validi motivi giuridici per il loro mantenimento nel conto del bilancio. In sostanza, è sufficiente conservare nel conto del bilancio residui attivi, in realtà inesigibili, per evidenziare risultati di amministrazione in parte inattendibili, eventualmente evitando anche di ripianare sostanziali disavanzi". (Relazione sui risultati della gestione finanziaria e sull’attività degli enti locali nell’esercizio 2001 e sulla gestione di cassa nell’esercizio 2002,inviata al Parlamento il 19 giugno 2003)

(2) L'ISCO - Istituto Nazionale per lo Studio della Congiuntura - scrive: "Quanto alla situazione al 31 dicembre 1999 dei residui attivi dei Comuni va segnalato il decremento avvenuto nel corso del 2000 (- 2,2%) segnando a fine anno un ammontare pari a 69.076,5 milioni di euro, a fronte dei 70.637,8 milioni evidenziati al 31 dicembre 1999. Un decremento esiste nella formazione dei residui della competenza che a fine 2000 si sono attestati a 31.162,6 milioni rispetto ai 35.023,9 milioni del 1999 (- 11%). La velocità di smaltimento dei residui della competenza è passata dal 41,7% del 1999 al 40,7% del 2000.Il forte decremento dei residui attivi di competenza verificatosi nel 2000 (Appendice ES. 7) è derivato dalla minore formazione dei residui di parte corrente passati da 18.529 milioni nel 1999 a 17.029,3 milioni del 2000 con un calo dell'8,1% e dei residui di conto capitale (- 28,8%) passati da 9.766,3 del 1999 a 6.952,4 del 2000. I residui della contabilità speciale hanno manifestato un vistoso aumento del 67,5% passando da 899,2 milioni a 1.505,8 milioni".
(Relazione 2001 - I bilanci delle Regioni, Provincie, Comuni e Comunità Montane, testo redatto per la Relazione generale sulla situazione generale del paese-anno 2001)

(3) Tenuto conto che, nel contesto descritto, i residui attivi fanno capo per lo più a presunti crediti riferiti a soggetti che non hanno mai versato le imposte dovute, Mediamente la cifra versata da un cittadino, nel 2001, per tasse e imposte comunali raggiunge una cifra vicina ai 350 euro/anno (la sola cifra mediamente pagata nel 2001 è stata pari per l'ICI a 369.571 lire e per la TARSU a 170.500 lire). Supponendo che ci si debba riferire ai cinque anni canonici (ma le ultime finanziarie hanno prorogato questo termine) si ottiene il debito presunto unitario pari ad una una cifra complessiva mediamente pari a 1.750 euro, senza contare interessi e sovraimposte per ritardato pagamento.

lunedì 6 settembre 2004

Democrazia e Controllo dei piccoli comuni turistici (2)

Abstract: Cittadini o residenti? Il decreto legge 267 definisce, in un impeto di deregulation, regole di gestione e sistemi di controllo delle amministrazioni comunali più o meno severe sulla base della "classe demografica". Un parametro ormai obsoleto che ritiene di rappresentare la dimensione (economica!) del comune dal numero dei sui residenti. Un metodo basato sulla "immobilità" della popolazione, ma sopratutto un metodo che discrimina cittadini non residenti. Cittadini che pagano tasse e tariffe ma che non hanno alcun diritto di partecipazione. Un insieme di condizioni che favorisce il "voto di scambio", scecie nei piccoli comuni a vocazione turistica.

Il caso: San Nicola Arcella, località turistica in provincia di Cosenza, con 1400 abitanti residenti (circa 450 famiglie) e circa 4500 appartamenti frequentati per le vacanze e di proprietà di altrettante famiglie: circa 10.000-11.000 cittadini che contribuiscono al reddito della comunità residente e che pagano, al pari di questi, tutti i tributi ed i servizi. Un caso, preso a riferimento tra centinaia di casi simili, che riguarda molti piccoli comuni turistici italiani.
L’attuale definizione di "abitante", che di fatto corrisponde univocamente al cittadino residente e quella di "elettore", che si riferisce al cittadino residente che, raggiunta l’età di legge, viene iscritto nelle liste elettorali, risulta di fatto un concetto vecchio rispetto alla evoluzione dei bisogni di una moderna società civile. Il cittadino non ha più bisogno di essere individuato da una anagrafe comunale che pretende di collegare indissolunilmente il luogo di residenza all'individuo. Collegare gli iscritti all'anagrafe comunale, un dato buono solo per bisogni statistici, ai cittadini che hanno diritto di voto è e sicuramente contraddittorio anche rispetto all’evoluzione delle variabili economiche che il decentramento amministrativo ha e sta comportando. Senza contare che il cittadino è individuato già da un codice fiscale, e presto, dalle proprie impronte digitali.
La questione riguarda, in special modo, un numero elevato di cittadini, non meno di 7-8 milioni di persone che utilizzano 3-4 milioni di seconde case e che pagano tasse e tariffe (1) in alcuni casi addirittura in misura superiore ai residenti.
Il cittadino avrebbe il diritto di partecipare alla cosa pubblica ovunque abbia interessi economici e ovunque paghi le tasse riconoscendogli, almeno, il "diritto", sempre previsto dagli statuti comunali nel capitolo "partecipazione" ma che spesso nei piccoli comuni, specie quelli turistici, volutamente disatteso, ad una adeguata partecipazione alla cosa pubblica e ad un controllo della gestione comunale da parte di organi, e tra questi il revisore dei conti, adeguati, qualificati ma sopratutto indipendenti(2) . Da qui la necessità di introdurre una norma più imperativa sul fatto che gli statuti comunali prevedano adeguati livelli di partecipazioni dei "cittadini", iscritti o non iscritti all'anagrafe, alla cosa pubblica.
Per il medio-lungo termine sarà il caso di affidare al Parlamento una azione che preveda, per la tipologia dei comuni rappresentata, la possibilità di porre rimedio al deficit di democrazia che ora si verifica, riconoscendo a quei cittadini di serie B, che pagano le tasse ed i servizi il diritto di accesso al voto per l’elezione di propri rappresentanti nei consigli comunali.Questo si potrebbe ottenere semplicemente ridefinendo il significato di "classe demografica" ampliandolo cioè a tutti i soggetti che nel comune sono portatori di interessi economici.

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1) tasse o tariffe che spesso, proprio nel caso di seconde case, risultano proporzionalmente più costose visto che molto spesso non vengono conteggiate a consumo. Molti comuni, infatti, fanno pagare i servizi sulla base di consumi minimi e non a contatore, applicano aliquote ICI superiori e senza sgravi, incassano una addizionale sull’energia elettrica, ecc. ecc.
2) cosa sostenuta anche dalla Corte dei conti – Sezione autonomie "..., la Sezione perviene ad una valutazione non positiva sul funzionamento di questi organi che non hanno corrisposto pienamente alle aspettative del legislatore e della collettività nazionale, in quanto le loro relazioni appaiono,.... , spesso non collegate con la realtà gestionale dell'Ente,..." (da Relazione sui risultati della gestione finanziaria e sull’attività degli enti locali nell’esercizio 2001 e sulla gestione di cassa nell’esercizio 2002 - Deliberazione n. 6/2003, inviata al Parlamento il 19 giugno 2003)

domenica 5 settembre 2004

Democrazia e Controllo dei piccoli comuni turistici (1)

abstract: Il decentramento amministrativo realizzato con il dl 267 dell'agosto 2000 sta cominciando a fornire i suoi riscontri, in termini di applicabilità. Il legislatore, in un impeto di buonismo, ha privilegiato la ....buonafede dell'amministratore dimendicando che questi è anche un politico. Un politico "in corsa" il cui primo obiettivo è la rielezione. Nei piccoli comuni le opposizioni, il revisore dei conti, il segretario, i tecnici comunali i cittadini scomodi sono sotto il controllo di una sorta di nuovo e potente capo ... : il sindaco.


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| Il caso | La questione | Le possibili azioni |
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Il caso
San Nicola Arcella, località turistica in provincia di Cosenza, con 1400 abitanti residenti (circa 450 famiglie) e circa 4500 appartamenti frequentati per le vacanze e di proprietà di altrettante famiglie: circa 10.000-11.000 cittadini che contribuiscono al reddito della comunità residente e che pagano, al pari di questi, tutti i tributi ed i servizi. In alcuni casi addirittura in misura superiore ai residenti. Il comune di San Nicola Arcella rientra nel novero dei comuni con meno di 3.000 abitanti e quindi l'amministrazione comunale non è sottoposta ad alcuni importanti controlli amministrati, pur avendo le "caratteristiche economico-finanziarie" di un comune di 10-15.000 abitanti.
L'analisi dei dati del Censimento ISTAT del 2000 mostra come il fenomno sia diffuso. Mediamente negli 8100 comuni del nostro paese per ogni abitazione non occupata da residenti sono disponibili 4 abitazioni occupate da residenti. Tra questi per ben 4.000 piccoli comuni, 15 milioni di residenti e 6 milioni di famiglie, le abitazioni occupate dai residenti rappresentano la metà di quelle disponibili. Per 1100 di questi comuni il rapporto medio sale a 3,4 , con punte che raggiungono le oltre 18 abitazioni disponibili per ogni abitazione occupata dai residenti.
Ciò porta a dire che le amministrazioni comunali di almeno 500 comuni (circa il 9% dei comuni con meno di 5000 abitanti residenti) e almeno 700 (circa il 15% dei comuni con meno di 3000 abitanti residenti, pur avendo le "caratteristiche economico-finanziarie" di comuni di "classe demografica" superiore, non sono sottoposti ad alcuni importanti controlli del Patto di Stabilità nè, di fatto, al controllo della Decreto Legislativo 18 agosto 2000, n. 267, TESTO UNICO DELLE LEGGI SULL'ORDINAMENTO DEGLI ENTI LOCALI, che limita alcuni importanti controlli ai comuni con popolazione superiore a 3000 abitanti (residenti).

La questione
Il decentramento amministrativo fin qui realizzato ha di molto potenziato il ruolo dei sindaci e della loro maggioranza ma ha di fatto ridotto a zero il ruolo delle minoranze anche e soprattutto attraverso la soppressione dei Comitati Regionali di Controllo.
L’Amministrazione Giudiziaria, la Corte dei Conti e le altre Amministrazioni di Controllo, la forza pubblica sono per loro natura lente e spesso, in questi piccoli centri, imbrigliate da una naturale rapporto di convivenza che, di fatto, favorisce il dilagare di una miriade di piccoli illeciti amministrativi che, attraverso una forzata impunità, si tramutano in una diffusa illegalità. Ciò avviene, crediamo, specie nel profondo sud, dove la frammentazione della popolazione in una miriade di piccoli centri, la mancanza di una cultura industriale e la "casualità" delle attività produttive produce, specie nei comuni turistici, "caste politiche" guidate e gestite dall’intreccio degli interessi forti (sic!) che il basso rapporto governanti /governati naturalmente crea.
Così che si assiste, per esempio, al fatto che un assessore di un comune vicino sia nominato responsabile amministrativo, che un sindaco di un comune confinante sia nominato revisore dei conti (senza averne adeguata qualificazione) e che tutti questi soggetti facciano parte di un Patto Territoriale e/o di una Comunità Montana.
Rispetto a questi problemi il dl 267 dell'agosto 2000 presenta gravi carenze. Carenze dettate da una ingenuo applicazione del diffuso bisogno di governabilità sia a livello locale che a livello nazionale, che ha di fatto eliminato tutti i contrappesi che matenevano in un equilibrio stabile la vita amministrativa del paese.
Al momento, alle minoranze ed al cittadino di uno di questi piccoli centri non resta che appellarsi al Prefetto. Figura che, malgrado un tentativo di depotenziamento, è rimasta l’unico, ma impotente, baluardo possibile.
Una questione rilevante rispetto alla efficacia del Patto di Stabilità che se tralasciata rischia di minarne le aspettative.


Le possibili azioni
Una azione con possibili effetti nell’immediato potrebbe essere quella di sollecitare il Ministero degli Interni a potenziare le funzioni e l’organico delle Prefetture, affidando a questa struttura la capacità del controllo della leggittimità.
Ma l'azione più efficace sarà quella di rimettere mano alla legge Bassanini per la parte che riguarda i piccoli comuni:

  • ridefinendo le maggioranze necessarie alla approvazione di atti fondamendali quali l'approvazione dello statuto comunale, l'approvazione del bilancio consuntivo, l'approvazione del piano pluriennale degli investimenti;
  • definendo meglio il diritto alla partecipazione della minoranza alla vita dell'amministrazione;
  • imponendo regole di accesso agli atti comunali valide per tutti i consiglieri;
  • imponendo modalità di covocazione e di definizione dell'ordine del giorno dei consigli comunali più trasparenti;
  • ridefinendo le competenze e la qualità tecnica del Revisore dei conti (p.e. imponendo la nomina di un revisore iscritto all'albo nazionale di categoria);
  • evitando che sia la sola maggioranza a eleggerlo, utilizzando p.e. la tecnica delle maggioranze qualificate;
  • migliorando il decreto legge 267 nella parte che riguarda la composizione delle commissioni di controllo, p.e. affidandole alle minoranze;
  • liberalizzando l'iscrizione all'anagrafe, ora usata in alcuni piccoli comuni turistici in modo discrezionale per non alterare gli equilibri elettorali;
  • definendo l'applicabilità e le maggioranze per la partecipazione popolare.
  • vietando in ogni caso che gli assessori siano contemporaneamente dirigenti degli uffici, p.e. incentivando i piccoli comuni all'utilizzo di uffici/servizi specialististi in unione con altri comuni o in service;
  • attivando controlli più cogenti sul fenomeno del voto di scambio.

Risultati seri e duraturi si posssono ottenere solo definendo. per l'elaborazione degli statuti comunali. un quadro di regole comuni, certe, predefinite in modo tale da mettere il freno alla voracità di sindaci che, dopo quattro anni di rodaggio, hanno ben capito il largo potere che la legge 267 gli ha affidato. E che ora reclamano anche il terzo mandato!